Molto spesso mi è stato chiesto: “come sei finita a Chernobyl?!”
Potrei dare la solita risposta (peraltro vera, ma banale): “perchè questa storia mi ha accompagnata tutta la vita, l’ho vissuta da bambina italiana, quando non si poteva mangiare la verdura, bere latte, bla bla bla.”
Questa è la storia di tutti noi che c’eravamo all’epoca dell’incidente. La parola “Chernobyl”, così strana e così lontana per noi bambini, è entrata nella vita di tutti quell’Aprile del 1986, ma ad un certo punto ne è anche uscita. Verso i miei vent’anni (dieci anni dopo l’incidente) credevo che tutto si fosse risolto. Nessuno ne parlava più. Eppure d’estate vedevo gruppi numerosi di bambini biondini dalla parlata slava riempire i paesi limitrofi al mio. Scoprii che erano bambini bielorussi e che venivano in Italia per il mese di risanamento, per disintossicarsi da “Chernobyl”. In me nacque il grande desiderio di ospitare un “bambino di Chernobyl”, ma avevo vent’anni e ben altri grilli per la testa. Così Chernobyl uscì nuovamente dalla mia vita. Trascorse un’altra decina d’anni, quando un giorno vidi un documentario in cui si parlava abbastanza dettagliatamente di ciò che era accaduto dopo il disastro nucleare, principalmente a livello politico e sociale. Rimasi a bocca aperta. Le bugie, i suicidi e le morti in condizioni ambigue di coloro che “sapevano qualcosa”. E così ripresi ad interessarmi. Poi arrivarono i social network ed iniziai ad appassionarmi alle fotografie che vedevo girare di quei luoghi. La città fantasma, i villaggi, gli anziani che vivono illegalmente nelle loro case. Ricordo quel giorno di primavera del 2015, come fosse ieri! Un ragazzo era nella Zona di esclusione e postava fotografie. Gli scrissi immediatamente, a caldo, senza ragionare: “Ciao, voglio visitare la Zona di esclusione di Chernobyl, tu come hai fatto ad organizzare?” E da lì iniziò l’avventura. Avvisai il mio compagno “Andiamo a Chernobyl”. Quando mi venne presentato il conto del viaggio per due persone mi prese il panico: non potevamo permettercelo. Ma la determinazione era troppo forte e nel frattempo, testarda come sono, proposi un reportage ad una agenzia fotografica, la quale accettò. Era fatta.
Sono arrivata a Chernobyl così, per pura curiosità e per lavoro. Non sapevo assolutamente cosa avrei trovato laggiù. Dopo il primo viaggio, decisi che dovevo aggiungere al reportage anche le commemorazioni del trentesimo anniversario, che sarebbero avvenute di lì a qualche mese. Ho dedicato i miei primi due viaggi al reportage che avevo venduto. Fu un grande successo, anche perchè, contro ogni possibile previsione, visitammo anche la sala comandi del reattore 4, quella da dove tutta questa storia ebbe inizio (https://www.francescagorzanelli.it/chernobyl/control-room-reattore-4-chernobyl-nuclear-power-plant/). E’ un luogo al quale è difficilissimo avere accesso, in quanto a stretto controllo militare e per il quale occorrono permessi speciali. Quando mi trovai lì dentro, proprio non credevo a ciò che stavo vivendo. Per me, poteva finire tutto lì. Il mio reportage era completo. Avevo visto molto di più di ciò che normalmente è possibile vedere. Ma qualcosa era cambiato in me già dal primo viaggio. Non ero laggiù solo per lavoro. Ero laggiù per qualcosa di diverso, che non capivo e che ancora oggi fatico a capire. E’ qualcosa di ancestrale, un richiamo forte, un filo invisibile che mi lega a quella terra ed a quella storia. Decisi quindi di tornare durante l’inverno, non più per lavoro, ma per me. Volevo vivere quella terra nella sua stagione più dura, vivere sulla mia pelle le sensazioni e le fatiche con le quali debbono fare i conti le popolazioni di quei territori. Organizzai il viaggio con alcuni amici. Ma al rientro da ogni viaggio mi sentivo triste e svuotata. Dopo quell’inverno non sarei mai più dovuta tornare. Non ne avevo motivo. Non c’era più nulla che dovessi fare io nella Zona. Quell’anno coronai anche il desiderio di accogliere a casa mia un bambino per il mese di risanamento. Pensavo di aver fatto tutto ciò che poteva essere nelle mie facoltà. Come se avessi saldato quello che sentivo come un conto aperto con Chernobyl: ne avevo parlato sui quotidiani (https://www.lanazione.it/livorno/cronaca/diario-chernobyl-1.2857945 , https://www.youtube.com/watch?v=jWsGJW4uTE8 , https://www.youtube.com/watch?v=ra7dPOKpQgs , http://www.bergamopost.it/pensare-positivo/torna-la-vita-animale-chernobyl-ma-per-gli-uomini-e-ancora-presto/ ) nelle scuole attraverso il mio “Diario di un viaggio a Chernobyl” e ne avevo documentato la situazione ad oggi, fotograficamente parlando. ( https://www.youtube.com/watch?v=1V7a9I3bWLU)
Ma come dice quel passo “ciò che è destinato a te, troverà il modo per raggiungerti”, io continuo ad essere raggiunta da Chernobyl e dalla sua storia. Molte persone mi contattarono chiedendomi di accompagnarle a visitare Chernobyl. “Io? Seriamente volete essere accompagnati da me nella Zona?” Non credevo a ciò che leggevo. Ricevetti anche una mail che mi lasciò letteralmente a bocca aperta. Il mittente era il manager di una agenzia che si occupa delle visite all’interno della Zona di esclusione. Mi proponeva una partnership per incrementare le visite dall’Italia, vista la mia passione e la mia conoscenza dell’area. Rimasi lusingata della proposta, per il semplice fatto di essere stata scelta, ma declinai. Non condividevo (e tutt’ora non condivido) l’idea di associare Chernobyl al profitto. Ho invece scelto di sviluppare i miei viaggi con chi ha la mia stessa etica e la mia stessa mission, ovvero far conoscere la storia di Chernobyl, i suoi territori, i veterani che l’hanno vissuta, sempre nel rispetto della memoria storica di questo grande disastro nucleare.
Inoltre, Serra x il mondo ONLUS, associazione che si occupa di cooperazione internazionale, ha deciso di supportare il mio desiderio di poter aiutare, moralmente ed economicamente, gli anziani che sono rientrati a vivere nella Zona di esclusione (chiamati Samosely). Sempre nell’ambito del mio progetto dedicato a Chernobyl ho avuto l’onore di poter accompagnare le telecamere della RAI attraverso questi territori, per un documentario dedicato. (https://www.youtube.com/watch?v=9wogjLA6W3E&t=452s ). In ultimo, ma non ultimo, i miei viaggi hanno interessato anche il club per l’UNESCO che li patrocina dall’Aprile 2018: “il Club per l’Unesco di Modena condivide con convinzione l’iniziativa risarcitoria per la gente di Cernobyl (e per l’umanità intera) che stai realizzando con tanto impegno. La salvaguardia delle risorse naturali (e della vita dell’uomo e dei patrimoni materiali ed immateriali) costituisce un obiettivo dell’UNESCO, e il percorso che stai attuando rientra tra le attività che i club sono chiamati a svolgere sul territorio di competenza”.
E’ nato tutto per caso, da un richiamo di decenni a cui ad un certo punto ho deciso di rispondere. Ho accompagnato persone ed il loro entusiasmo e la loro gratitudine mi hanno spronata a continuare. Affrontare questo viaggio ed entrare in contatto con questa realtà porta ad una consapevolezza che non avrei mai immaginato di poter raggiungere e i sorrisi sdentati di gratitudine dei Samosely sono diventati come droga per me. Oggi posso dire che, agli inizi, non sapevo assolutamente nulla di questa storia, perchè ciò che sappiamo in Italia non solo è riduttivo, ma è anche molto “gonfiato” dal sensazionalismo che tanto emoziona noi italiani, che abbiamo il gene del “dramma” super sviluppato. Ero pronta a entrare in un mondo morto, totalmente contaminato, dal quale probabilmente sarei uscita come una sopravvissuta. Giuro. Ho creduto questa cosa per un annetto buono. Durante i miei primi due viaggi mi sentivo in un video gioco, o meglio, le mie ridotte conoscenze mi facevano credere questo. Eppure i miei occhi e la mia macchina fotografica vedevano ben altro. Non vedevano una terra morta, disabitata. Non vedevano disperazione, non riuscivano a vedere immagini in bianco e nero.
Continuavo a vedere rinascita ovunque. Natura rigogliosa, animali mai visti prima in vita mia! Non avevo mai visto, prima di allora, una volpe, un alce e nè tantomeno un cavallo di Przewalski. Per non parlare delle persone che si aggiravano per Chernobyl. Persone normali, che andavano al market a fare la spesa, operai che si bevevano una birra a fine turno di lavoro, persone che chiacchierano per strada. Cose normali. La vita che scorre, nonostante tutto. Per quanto mi sentissi più fortunata di loro, per il semplice motivo che io non ho mai dovuto avere a che fare con un disastro nucleare, non mi vedevo assolutamente diversa da loro. Anzi, in realtà mi sono sempre sentita “molto meno” di loro. Non mi sono mai rivolta a questa storia con sensazionalismo, perchè sono convinta che la storia di Chernobyl non necessiti di essere sensazionalizzata. E’ già abbastanza incredibile di per sè. Ho ben presto capito che non era mia intenzione approcciarmi con pietismo a questa terra e alle persone che la vivono. Sono cambiata talmente tanto (in meglio, a parere mio) da quando frequento la Zona di esclusione, tanto da provare un forte senso di gratitudine e aver poi deciso di raccontare questa storia, senza filtri. Ho capito che volevo parlare della vita che vedo e vivo laggiù. Una vita, nonostante tutto.