Il 25 aprile 2016 mi trovavo a Chernobyl per le celebrazioni che si sarebbero tenute, durante la notte, per il trentesimo anniversario dal disastro nucleare ed ho avuto l’immenso onore di conoscere di persona alcuni liquidatori.
Di seguito un’intervista de La Repubblica, del 26 marzo 2006, ad un liquidatore sopravvissuto, militare dell’Armata Rossa.
Mosca – «Sono scoppiati degli incendi vicino a Kiev. Dovete andare a spegnerli».
Il 26 aprile 1986 il tenente colonnello Vladimir Alimov, uno dei primi liquidatori di Chernobyl e uno dei pochi a essere sopravvissuto, fu buttato giù dal letto alle 4.30.
Sognava casa nella sua caserma vicino a Baikonur, in Kazakhstan.
“Sembra incredibile – racconta oggi – che nessuno ci spiegò con precisione dove dovessimo andare, per fare cosa. A tutti sembrò assurdo volare per migliaia di chilometri per un semplice incendio. Abbiamo capito dopo alcuni mesi: il comando dell’ Armata Rossa aveva paura che di fronte alla verità i soldati si rifiutassero di andare a morire.”
-Quando arrivò a Chernobyl?
«La notte del 26 aprile. Non dormivo da venti ore. Un viaggio massacrante. Scali in Georgia e poi in Ucraina, a Cernigov e a Konotop. Solo il tempo del rifornimento di carburante. Chiedevo al mio capitano, Smirnov, cosa stesse succedendo. Pensavo che l’ Urss stesse preparando un attacco in Polonia. A Konotop ci hanno detto che c’ era stata una catastrofe a Chernobyl. Non avevo mai sentito quel nome».
-Si rese conto di essere stato mandato a seppellire un reattore nucleare?
«No, ma che si trattasse di un evento gravissimo era chiaro. Lungo il percorso si formò una colonna di elicotteri mai vista, in arrivo da tutta l’ Unione sovietica. Ricevevamo “corridoio verde”, il diritto di precedenza ovunque. Atterrammo a Pripyat in dieci, non c’ era traccia di fuoco. Il generale Antoshkin ci consegnò delle tute di gomma, sacchi di sabbia e blocchi di piombo. E ci ordinò di decollare subito».
-Cosa vide quando raggiunse il reattore esploso?
«Era buio. Volavo a 50 chilometri all’ ora, a 200 metri da terra. Nella centrale vidi uno squarcio di pochi metri. Sembrava che il tetto fosse crollato. Nulla di speciale. Per buttare sabbia e piombo nel cratere dovevamo aprire i portelloni e sporgerci per prendere la mira. Non avevamo alcuna protezione. A ogni missione mi alternavo alla guida con il capitano Smirnov».
-Quanti voli faceste in quelle ore?
«Le norme prevedevano un massimo di sei voli al giorno. In tre giorni ci costrinsero a farne 99. Ma ormai eravamo rassegnati a morire».
-Perché?
«Il secondo giorno un medico militare ci suggerì di consegnare al comando i dati delle nostre famiglie. Spiegò che alla nostra morte avrebbero ricevuto una pensione di 150 rubli al mese».
-Come scoprì il rischio della contaminazione radioattiva?
«Fu la gente del posto a insegnarmi cosa significava catastrofe nucleare. Già dopo il primo volo un chimico-dosimetrista misurava i nostri livelli di radiazioni. Se i valori massimi vengono superati, la lancetta dell’ apparecchio crolla sullo zero. Così fu per tutti».
-Perché avete continuato?
«Eravamo soldati, non si possono discutere gli ordini».
-Capì la gravità del disastro?
«Nessuno comprese subito che s’ era alzata una nube radioattiva, che questa avrebbe contaminato mezza Europa. Ero convinto che si trattasse di un disastro locale».
-Come si salvò?
«Dopo tre giorni avevo assorbito una dose di radiazioni non sopportabile. Assieme ad altri due equipaggi fummo caricati su un Tupolev e ricoverati d’ urgenza all’ ospedale centrale di Sokolniki, a Mosca. Fummo tenuti in isolamento per otto mesi: sia per ragioni mediche, sia per evitare che raccontassimo ciò che avevamo visto e fatto».
-Ha ricevuto dei risarcimenti?
«Nemmeno un rublo. Ci hanno spiegato che eravamo volontari. è stato un miracolo se non sono stato espulso dall’ aeronautica militare. I piloti possono trasmettere una radioattività massima di 25 roentgen. Io segnavo 260. Falsificai il libretto sanitario, scrivendo 23. Anche alle autorità giovava dimostrare che i liquidatori erano guariti».
-Quali conseguenze ha subìto in questi anni?
«Per salvarmi ho dovuto assumere ormoni di produzione giapponese. Sono ingrassato di venti chili in tre mesi e ho perso i capelli. Ho il fegato distrutto e sono sopravvissuto a una leucemia acuta. Però sono vivo: dei miei compagni di missione non è rimasto nessuno».
-Ha fatto carriera?
«No, le malattie mi hanno fermato. Sono solo rientrato nell’ aeronautica. Quattro anni dopo la catastrofe sono stato decorato con l’ Ordine della Stella Rossa. Sei anni fa, dopo un’ azione in Cecenia, mi hanno riconosciuto il titolo di Eroe della Federazione russa».
-Si sente un eroe?
«Nessun reduce di Chernobyl è un eroe. Siamo condannati a morte, salvi per caso».
-E’ vero che Chernobyl, per ragioni politiche, è un disastro gonfiato?
«Attorno alla centrale ho perso i miei compagni. Trentasette elicotteristi, giovani, i migliori dell’ Urss. Nessuno è sopravvissuto per oltre cinque anni. In vent’anni i piloti sovietici mandati a Chernobyl e morti sono stati oltre seicento. Ancora non capisco cosa voglia dire esattamente politica. Per chi si è salvato, dal punto di vista morale e psicologico, Chernobyl è piuttosto una catastrofe ignorata: minimizzata, quando non ridicolizzata mentendo a chi è morto restando formalmente in vita».
Credo fermamente che andrebbe istituito un giorno della memoria a livello mondiale, per rendere giustizia a queste persone!