La storia della cittadina di Polesskoe è davvero particolare e poco nota.
Quando si parla della Zona di esclusione ci si riferisce sempre all’area circostante Chernobyl e Pripyat, ma la Zona è molto più ampia.
Polesskoe (o Poliske, come pronunciato in ucraino) si trova a nord-ovest rispetto alla centrale, sempre nel territorio di Polissya.
Polissya è il nome che viene dato a questa zona, particolarmente paludosa, collocata tra il nord dell’Ucraina ed il sud della Bielorussia, per un’estensione di circa 98400 km². E’ proprio per le caratteristiche di questo territorio che l’Unione Sovietica decise che sarebbe stato il luogo ideale per la costruzione del più grande polo nucleare del mondo.
A proposito di Polesskoe, si hanno notizie di questa città già dal 1415, la seconda più antica rispetto a Chernobyl (1193). Era principalmente abitata da ebrei, come anche la stessa Chernobyl. Poi la storia ha fatto il suo corso con l’avvento dell’Unione Sovietica ed è noto a tutti ciò che accadde agli ebrei. Tant’è che anche Polesskoe seguì il percorso di tutte le altre città che gravitavano intorno alla centrale nucleare, divenendo una ricca città tanto che al momento dell’incidente del 1986 vantava ben 11.300 abitanti, tre scuole, una scuola professionale, due centri della cultura, alcune fabbriche produttive, un centro per telegrafo e telefono, un grande magazzino e, proprio come Pripyat, attirava tanta gente per lo shopping, da tutta Ucraina.
Dopo l’incidente non fu evacuata e anzi, divenne un punto di riferimento per l’evacuazione. A tante autorità e a coloro che erano impegnati nella liquidazione delle conseguenze dell’incidente, venne consegnato un appartamento in questa cittadina. Nell’estate del 1986, a seguito di alcune indagini dosimetriche, si appurò che questa città era estremamente contaminata (d’altronde quella fatidica notte la nube radioattiva si diresse proprio a nord/ovest), ma le autorità sovietiche non presero alcun provvedimento. Continuavano le menzogne al fine di salvare il “progetto” sovietico, nonostante fosse evidente che era in pieno fallimento. E al fine di dimostrare che tutto funzionava alla perfezione e non vi erano problemi per la salute delle persone e del territorio, fu assolutamente vietata l’evacuazione e si decise di iniziare la costruzione di nuove abitazioni per continuare con il grande sogno delle “città modello sovietiche”. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenuta nel 1991, e una volta che l’Ucraina ottenne la sua indipendenza, si avviò l’evacuazione definitiva di Polesskoe, nel 1993. Negli anni, una ventina di self settler tornarono a vivere in queste aree, nonostante risultino ancora estremamente contaminate.
Visitai questa città nell’Aprile nel 2016, con non poche difficoltà. Questa zona è un argomento tabù da queste parti e difficilissima da visitare. Ad oggi è possibile solo transitare (e non sostare) attraverso queste terre, una volta ottenuto il permesso governativo. Tentammo un primo accesso, ma fummo respinti dalla polizia al check point “senza ma e senza se”. Riprovammo alcuni giorni dopo, accompagnati da una autorità locale e ottenemmo finalmente il permesso di accesso. Non sostammo nella parte nuova della città se non per alcune veloci fotografie e andammo diretti a fare visita ad alcuni Samosely.
Quel giorno conobbi Vlada (https://www.francescagorzanelli.it/chernobyl/vlada/) l’unica bambina che abbia mai incontrato nella zona di esclusione, in tanti anni di visite. (Ai bambini è vietato l’accesso alla zona di esclusione sul territorio ucraino. Diversa è la situazione in territorio bielorusso dove molti bambini vivono all’interno del perimetro di alienazione). A Polesskoe vive anche Halla che all’epoca del nostro incontro aveva 87 anni. Vive sola con il cane in una zona abbastanza isolata dal centro del villaggio, dove risiedono gli altri 3 abitanti. In una casa vicina alla sua, di tanto in tanto viene a soggiornare un signore che di norma vive a Kiev, ma torna perchè la casa è di proprietà e fa il possibile per tenerla in “ordine”. Halla è una donna sulla quale il peso degli anni si vede tutto. Cammina con lentezza, appoggiata a un remo per barche. E’ felice di ricevere visite perchè non vede mai nessuno ad eccezione del vicino e del figlio che le fa visita una volta al mese. Racconta di non aver mai lasciato la Zona perchè le radiazioni erano ovunque e quindi le sembrava inutile abbandonare la sua casa per essere trasferita in un posto nuovo, ugualmente contaminato e pericoloso alla stessa maniera. Salta subito all’occhio come sia rimasta ancorata al passato e come sia nostalgica dell’Unione Sovietica, già dal simbolo con falce e martello che ancora svetta sul suo cancello. Tra una chiacchera e l’altra ha poi esternato la sua malinconia, sostenendo che si viveva molto meglio durante il periodo sovietico. C’era lavoro e serenità. A Polesskoe incontrai anche Jusefa, una anziana di 91 anni (nel 2016) piccola e ricurva su se stessa, che si scusò tanto perché non si sentiva bene e non aveva voglia di parlare. Ricordo che lo disse con una tale gentilezza e un rammarico che veniva voglia solo di abbracciarla. Di lei non ho mai più saputo nulla. Il problema con i Samosely è proprio questo: se non hanno parenti che si occupano di loro si può rischiare davvero che ci lascino senza che nessuno se ne accorga per mesi.
Sono tantissime le notizie che non hanno raggiunto l’Italia in merito alle conseguenze del dopo Chernobyl e sono altrettante le notizie che tutt’oggi non trovano spiegazioni esaustive, anche chiacchierando con le persone del luogo, ma credo che tutto sommato sia giusto così. Le persone che convivono con l’eredità di Chernobyl meritano rispetto, sia per il loro passato, che per il loro presente e soprattutto per il loro grande spirito di accoglienza. In fondo tutti meritiamo di vivere sereni, chiudendo con il passato e godendoci il presente ed il futuro che ci rimane da vivere.